Questa è la relazione presentata dal dott. Gaetano Sisalli alle Giornate I.A.T. tenutesi in Pistoia il 13 Maggio.
Decidiamo di riproporla, per intero, qui sul nostro “Spazio virtuale” mantenendo il linguaggio utilizzato nell’esposizione orale in quanto, a nostro avviso, è uno spunto interessante da prendere in considerazione dagli addetti ai lavori per mantenere il clima di confronto aperto che a noi di Spazio Imago piace. Pur parlando di analisi transazionale, offre un punto di vista interessante sul modo di operare in ambito clinico e nelle istituzioni della psicoterapia
ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE. Viaggio nella giostra dell’A.T.
OVVERO
Considerazioni ideologico, politiche , filosofiche, linguistiche e psicologiche di un marziano su un modello di terapia e counseling camaleontica in grado di essere utilizzata per tutto e per tutti.
Come sa chi ha letto Alice nel paese delle meraviglie questo è un romanzo fantastico pubblicato nella metà dell’ottocento da un matematico e scrittore inglese. Il racconto è di per sé un gioco costituito da regole linguistiche, fisiche e matematiche. Questa complessità nella apparente semplicità e fantasiosità lo ha reso famoso.
Alice nel paese delle meraviglie è anche un sogno. È anche viaggio .
Lewis Carroll scriverà in seguito “Alice attraverso lo specchio”, altro racconto fantastico in cui Alice attraversa uno specchio e si ritrova nuovamente in un altro mondo, per diventare principessa.
L’autore nel prologo scriverà anche un ammonimento affinché Alice non perda la sua innocenza di bambina.
Nel pensare alla riflessione che volevo portare e stimolare in questa giornata ho tentato di mantenere un atteggiamento che tenesse conto del mio essere bambino, utilizzando gli strumenti adulti del linguaggio. Per fare questo ho tentato di assumere una posizione da “marziano“, nel senso di provare a guardare da fuori quello che vivo dentro, o forse ad entrare dentro a ciò che vivo e che inconsapevolmente do per scontato, cioè che sono un analista transazionale.
Sono partito dal titolo della giornata ( n.d.r. L’AT IN GIOCO: la dimensione ludica dell’esistenza e della relazione interpersonale) titolo intrigante , senza prendere però in considerazione il sottotitolo che a mio avviso mi avrebbe portato in una direzione diversa da quella che volevo intraprendere. Quella per cui abbiamo ascoltato una serie di interessanti relazioni in cui si è parlato del gioco come risorsa e come patologia da una prospettiva analitico transazionale ma non si è messa in gioco l’Analisi Transazionale.
Questo è il motivo per cui ho deciso di dare un sottotitolo alla mia relazione di oggi, sottotilolo in cui esplicito le mie intenzioni.
Io ho inteso l’A.T. (n.d.r. abbreviazione di Analisi Transazionale) in gioco come l’A.T. che si mette in gioco e personificando l’A.T. sono arrivato all’espressione mettersi in gioco. Questa espressione è spesso utilizzata nel linguaggio comune, “ mi sono messo in gioco , se vuoi avere successo ti devi mettere in gioco, esci dal tuo letargo e mettiti in gioco, mettiti in gioco vedrai che le cose cambieranno. Sei finito così perché non ti sei messo in gioco ecc..“ e oggi oggetto di lavoro per tanti saggi e consulenti, alcuni chiamati “coach“, che sanno per l’appunto come aiutare le persone a rimettersi in gioco.
Questo diffuso argomento che troviamo anche in politica, per cui vediamo politici sconfitti nelle loro idee che si rialzano e si rimettono in gioco continuamente, sembra sia il risultato di un’idea “forte e potente” per cui non va bene che ti affliggi se ci sono problemi. Ci sono sempre felicità possibili, sogni possibili, vite possibili, lavori possibili, desideri possibili o altro da poter raggiungere se solo lo si vuole, o ancor meglio, se guidati da persone esperte in grado di dare strumenti per aiutarti a rimetterti in gioco. Sembra uno spot pubblicitario o un canto seduttivo di sirene di antica memoria (quelle sirene che uccidevano i marinai che non erano in grado di avere rapporti sessuali soddisfacenti con loro) e sicuramente lo è se guardiamo alla pubblicità su internet di consulenti vari ma anche di studi professionali o di scuole di psicoterapia e di counseling.
A me sembra che questo mettersi in gioco rappresenti più una sorta di spinta al servizio dell’illusione, come quella che oggi va particolarmente di moda e che sta illudendo tanti giovani, per la quale sei invitato a diventare imprenditore di te stesso e questo ti realizzerà, o meglio, ti permetterà di realizzare tutti i tuoi sogni. Anzi questa idea è diventata essa stessa il sogno. Ci troviamo di fronte ad una dimensione psicosociale che sponsorizza l’idea che contamina le menti con la convinzione che “mettersi in gioco” è una medicina buona per tutti.
Accanto a questa visione del mettersi in gioco però può esserci un’altra visione meno adattata, più critica, in cui possiamo leggere il mettersi in gioco in senso letterale e cioè come mettere se stessi in gioco. Se utilizziamo questa interpretazione del mettersi in gioco, immediatamente entriamo in contatto con l’immagine del gioco e del saper giocare. Saper giocare, a mio avviso, significa mettere in discussione se stessi . Si dice che il vero giocatore non si vede quando vince ma quando perde. E si dice anche al vincitore “ hai vinto, ma non sai quello che ti sei perso”. Vedremo più avanti quello che si può perdere il vincitore.
Nel gioco così come è stato analizzato da filosofi e sociologi ci sono almeno due aspetti compresenti: l’agonismo (agon) e il caso (alea). Nel gioco c’è un altro elemento importante che è il divertimento. Non c’è gioco senza che ci si diverta.Nel gioco si può vincere e si può perdere.
Perdere è altrettanto importante.
Siamo abituati a pensare che chi perde lo fa perché ha sbagliato non considerando l’esistenza del caso nel gioco. Ma forse mettersi in gioco vuol dire proprio imparare a perdere, mettersi nella condizione di poter perdere. In quest’ottica l’esperienza del mettersi in gioco rinvia a una messa in gioco della nostra sicurezza. Non si può parlare di gioco senza pensare a un rischio, quello di mettere in gioco la nostra soggettività. Giocare comporta sempre una frattura con il “me stesso” proprio a causa degli elementi connessi al gioco, cioè l’agonismo e il caso. Aristofane non casualmente poneva l’agone nella commedia come scena che preannunciava la denuncia dei vizi pubblici.
In una società in cui non si può che vincere, ci stiamo perdendo la capacità di perdere. Per cui o si vince o si è divorati dalle sirene perché non siamo stati abbastanza abili. Insomma invece di giocare attivamente finiamo con l’essere giocati dal gioco assumendo una posizione passiva.
Con queste suggestioni ho immaginato un ‘A.T. che si mette in gioco rispetto alla sua teoria, rispetto alla metodologia, rispetto ai suoi rappresentanti. Il tema è vasto e quindi mi limiterò ad alcune suggestioni.
Rispetto alla teoria voglio partire da una considerazione. L’A.T. nasce ad opera di Eric Berne che, indispettito per il fatto di non essere riuscito ad essere ammesso a far parte della società psicoanalitica, decide di costruire un suo apparato teorico tecnico e dare spazio alle sue intuizioni. La base teorica di partenza è quella psicoanalitica e quindi centrata sull’Edipo o meglio sull’interpretazione che Freud dà della vicenda edipica. Possiamo sinteticamente affermare che il tema centrale della vicenda è la ricerca della verità, una verità necessaria a individuare l’epidemia che stava distruggendo la città. In questa ricerca del male, Edipo non sa che il male è lui e che è stato giocato dal destino. L’oracolo aveva dettato una sentenza che si è realizzata in tutta la sua drammaticità. Se immaginiamo la vita come un gioco, il gioco della vita, possiamo affermare che in questa vicenda Edipo è giocato dal gioco della vita e non riesce a trasformare il gioco. Come direbbe Bateson , non è riuscito a cambiare le regole. Berne apparentemente cerca di spostare l’orientamento dal destino alla dimensione sociale come responsabile della costruzione del nostro destino. Subito dopo però tornerà a individuare nei genitori i responsabili dell’organizzazione dei nostri copioni. I genitori sono come gli oracoli che predicono il destino dei figli. Anche Berne viene sedotto dall’idea che siamo giocati dalla vita piuttosto che essere giocatori della vita. Nelle sue teorizzazioni il tema del gioco è sicuramente presente nell’idea di copioni vincenti e perdenti e quindi nella tipizzazione delle persone in queste due grandi categorie e nel suo più famoso testo “A che gioco giochiamo?” (1964).
Berne nel descrivere il gioco dice:
“Un gioco è una serie progressiva di transazioni ulteriori complementari rivolte ad un risultato ben definito e prevedibile. Si può descrivere come un insieme ricorrente di transazioni, spesso monotone, superficialmente plausibili, con una motivazione nascosta; O, più semplicemente, come una serie di mosse insidiose,” Truccate”……. Il gioco È fondamentalmente sleale, E la conclusione ha un elemento drammatico E non semplicemente emozionante………A prima vista il gioco si presenta come un insieme di operazioni, ma al momento di pagare la posta risulta evidente che le ”operazioni” erano in realtà delle manovre; Non franche richieste ma mosse. Ci interessano ai giochi inconsci, giocati in buona fede tra individui impegnati in “transazioni duplici” di cui non sono pienamente consapevoli, Che costituiscono l’aspetto più importante della vita sociale in tutto il mondo…… non bisogna fraintendere il termine”gioco”……. Il nostro gioco non implica necessariamente un divertimento……. Il più sinistro di tutti, ovviamente è «la guerra”.
In questa visione del gioco sembrano stravolte le regole non c’è agone, non c’è il fato, tutto è prevedibile e si ripete sempre uguale. Non c’è divertimento.
Non sembra che Berne abbia preso in considerazione quanto scritto da Bateson in quegli anni (1955) a proposito del gioco a partire dall’osservazione di animali. Bateson sostiene che non è possibile l’affermazione “questo è un gioco” in quanto ritiene che questa affermazione contiene in sé un paradosso. Paragona il gioco alla psicoterapia, anche se ne individua delle differenze. Dice:
“ la somiglianza tra il processo terapeutico e il fenomeno del gioco è profonda: ambedue avvengono all’interno di una cornice psicologica limitata……. Proprio come lo pseudo-combattimento del gioco non è combattimento reale, così lo pseudo-amore e lo pseudo-odio della terapia non sono amore e odio reali.”
Berne trasforma il gioco da una dimensione “come se” a una scena che serve a rinforzare un copione perdente. Non ci sono vincitori nel gioco. Tutti perdono. Chissà se era proprio questo il vissuto connesso alla sua fuoriuscita dalla società psicoanalitica e cioè che tutti avevano perso.
Se riprendiamo quanto ci propone Bateson e consideriamo il gioco al pari della messa in atto di processi di transfert e controtransfert, se consideriamo quanto alcuni autori A.T. un po’ timidamente hanno proposto a proposito dei giochi in A.T. considerandoli come descrizione di eventi di dinamica relazionale, possiamo affermare che non è l’ A.T. in gioco, ma è il professionista che è in gioco e sta giocando con le regole d’A.T., mentre il paziente cerca di giocare con le sue regole. Se ognuno dei due rimane chiuso nelle proprie regole (cioè nella propria soggettività) o se al contrario costringe l’altro a stare nelle proprie regole non c’è gioco trasformativo ma ripetitivo o peggio patologico. Questo è quello che succede quando un terapeuta o un counselor cerca di leggere ciò che accade nella relazione esclusivamente con la sua teoria precostituita o deve giocare una tecnica terapeutica perché così gli hanno insegnato, senza valutare se ciò che sta facendo ha un senso nella relazione terapeutica e sta agendo per soddisfare il suo bisogno di affermazione o peggio per affermare il suo potere nella relazione.
Il gioco diventa trasformativo nel momento in cui siamo consapevoli delle regole e ne individuiamo di nuove insieme al nostro paziente. A quel punto si è realizzato un vero contratto di analisi, che diventa terapeutico nel senso di trasformativo, perché si comincerà a giocare un’altra partita dove tutti hanno da guadagnare, sia chi perde che chi vince.
Berne parla dei copioni “vincente” e “perdente“. Il vincitore è colui che all’interno del proprio copione raggiunge mete prefissate e dispone di un apparato di copione adattivo, da Berne definito “principe” o “principessa“. Il perdente invece è il protagonista di un copione che non raggiunge le proprie mete e viene chiamato da Berne “ranocchio” o “rospo“. I bambini nascono con il potenziale per diventare principi o principesse ma a causa del copione perdono la loro ok-ness e diventano rospi. A questo punto, ci viene in aiuto Steiner che afferma che:
“Dal momento che gli esseri umani nascono OK, è ragionevole che, con l’aiuto di persone competenti, possano tornare alla loro originaria posizione OK. La capacità di essere OK è in attesa in ogni persona, pronta ad essere liberata dalle proibizioni del copione. L’analista transazionale sa bene che, se si fanno contratti terapeutici chiari e indirizzati ad un obiettivo, se si analizzano validamente le transazioni interpersonali e se si dà alla persona in modo forte il permesso di cambiare, proteggendola al tempo stesso dalle sue paure, ognuno può avere l’opportunità di diventare una persona felice, amorevole e produttiva”.
Stiamo ancora portando avanti questo modello di propaganda.
Secondo tema.
Il secondo tema è connesso alla metodologia, o meglio alle metodologie o meglio ancora alle scuole. Seguendo il criterio individuato da Barnes (1977) e cioè che si ha una scuola quando il leader carismatico è un TSTA e diventa leader effettivo, quando si realizza un canone di gruppo e una cultura di gruppo, si possono individuare una straordinaria quantità di scuole:
- Classica
- Gruppo di San Francisco (Dusay)
- Psichiatria radicale (Steiner)
- Fondazione Asklepieion (Groder)
- Ridecisionale (Goulding)
- Reparenting (Schiff)
- Eclettica (Woollams s Brown)
- Minicopione (Kalher e Capers)
- delle transazioni sociali (James)
- Psicoterapia integrativa (Erskine)
- Costruttivismo postmodernista (Allen)
- Psicodinamica (Moiso)
- Psicoanalisi transazionale (Novellino)
- Relazionale (Hargaden e Sills)
- Corporeo-relazionale (Cornell)
- Co-creativa (Tudor)
- Socio-cognitiva (Scilligo)
- Gates (Gestalt-Analisi Transazionale- Enneatipi- Spiritualità – Antonio Ferrara)
Sicuramente ne dimentico tante altre e me ne scuso. Sarebbe certamente interessante fare una ricerca in tal senso.
Francamente comprendo quei colleghi di altra formazione che non hanno chiaro quello che facciamo come analisti transazionali e che probabilmente ci inviano persone non tanto per la nostra appartenenza ad una scuola o ad un modello ma per la nostra capacità professionale. Credo che questa proliferazione interna sia proporzionale allo scarso riconoscimento esterno dell’ A.T. e probabilmente sia funzionale al tentativo di distinguersi in qualche modo e di essere riconoscibili. Michele Novellino si chiede:
“ Come mai l’Analisi Transazionale, nonostante le brillanti intuizioni del suo fondatore, non viene considerata scientificamente al livello di psicoanalisi, terapia della famiglia, cognitivismo.”
Mia moglie che è diventata un mio sponsor mi chiede continuamente di spiegarle cosa è l’ A.T.. anche se probabilmente non sa neppure che cosa ’è la psicoanalisi, pensa in verità di sapere di cosa si tratta.
Questa grande diffusione d’identità è quella che fa dire a Joel Paris , psichiatra canadese famoso per le sue ricerche sui disturbi di personalità e sui disturbi bipolari, che l’A.T. è morta con il suo fondatore e appartiene ad una di quelle psicoterapie che si presentano come meteore nel panorama scientifico senza lasciare traccia. L’assenza di riconoscimenti da parte del mondo accademico , l’assenza quindi di riconoscimenti esterni al mondo dell’A.T., ha influito nel mantenere il copione dell’”outsider” descritto da Novellino e la proliferazione di scuole che hanno la funzione di ottenere quantomeno riconoscimenti e visibilità interna alla società A.T..
L’ultima suggestione riguarda noi analisti transazionali.
In un recente articolo M. Novellino ha descritto un possibile copione presente negli analisti transazionali che recita nella sua tesi:
“ Se mi seguite diventerete analisti, più bravi degli psicoanalisti, liberandovi delle loro eccessive e noiose pretese” con
Spinte – sbrigati, sforzati, sii perfetto
Ingiunzioni – non appartenere, non farcela
Tornaconto – emarginazione.
Sembra un po’ il copione di un ossessivo che ha paura di arrivare fino in fondo perché pensa di non essere capace di andare oltre e rimane vincolato nel suo desiderio di uccidere il padre senza mai farlo perché il tornaconto del suo copione è quello di non farcela. Secondo Novellino si è realizzato un miscuglio tra il desiderio di rivalsa che ha portato Berne a costruire un sistema onnicomprensivo, che vuole rispondere a troppe domande sia teoriche che tecniche e lo shopping compulsivo degli allievi rispetto ad altre forme di psicoterapie. Nel condividere queste idee ritengo che mettersi in gioco in A.T. vuol dire non temere di guardare a se stessi e di farlo in relazione all’altro altrimenti ci ritroviamo a fare dei solitari che hanno una grande forza ipnotica ma nessuna capacità trasformativa. Questa si ha nel momento in cui giocando si perde e perdendo si guarda l’altro. La possibilità di confrontarsi con l’altro è quello che a mio avviso si perde se si è costretti a vincere sempre. Se si perde o si vince sempre non si sta giocando nessuna partita. Allora immagino il mondo A.T. fatto di tanti giocatori di solitari magari diversi ma pur sempre solitari in cui il tempo si è fermato , come in uno stato dissociativo, come succede nella scena in cui Alice è invitata a prendere il tè a casa del Cappellaio Matto. In questa scena il Tempo si vendica contro il cappellaio matto che ha un orologio dove passano i giorni ma non le ore perché l’ora si è fermata all’ora del tè e i personaggi presenti cambiano di posto ma ripetono la stessa scena.
Finisco queste mie riflessioni con l’indovinello che il Cappellaio Matto fa ad Alice, la cui soluzione ci può aiutare a cambiare .
“ Che differenza c’è tra un corvo e uno scrittoio?”