“LIBERTÀ, UGUAGLIANZA E FRATELLANZA: UNA FEDE CHE DEVE ACCOMPAGNARE L’OBBIETTIVO CLINICO DELLO PSICOTERAPEUTA.” (Carlo Moiso 2004)
Riflessioni “in libertà” su un intervento di Carlo Moiso effettuato nel 2004 in occasione di una Giornata di Studio promossa dall’IAT a Trani nel 2004, redatte dal Dott. Gaetano Sisalli, psichiatra, psicoterapeuta, analista transazionale clinico, TSTAP. presidente Ass. Spazio Imago
Incontri
Ho incontrato Carlo Moiso per la prima volta a Palermo ad un congresso di AT nel 1988, aveva da poco ricevuto il premio Berne, e per gli altri venti anni della sua vita ho continuato ad incontrarlo, credo ogni anno fino al 2006. Con lui sono stato nel Consiglio direttivo dell’IAT, associazione da lui fondata con Michele Novellino, e da lui sono stato indicato come suo successore alla presidenza dal 2001. L’intervento di Carlo che in gran parte riporto in questo articolo appartiene proprio a questo periodo, in cui sono stato presidente dell’IAT e sono stato da lui accompagnato in questo compito. Ho colto l’invito che Rino Ventriglia mi ha fatto, di recuperare del materiale di Carlo ed ho trovato questo suo intervento interamente sbobinato tenuto a Trani nel 2004. Voglio ringraziare Patrizia Vinella che mi ha consentito, attraverso il suo lavoro, la possibilità di accedere a questa memoria.
Con Carlo non ho fatto terapia né formazione continuativa. Ho discusso di teoria, di teoria della tecnica, di politica, di politica associativa, di AT e ho condiviso, come lui soleva ricordarmi, un casuale intreccio di nomi: infatti io mi chiamo Gaetano come suo padre e mio figlio si chiama Carlo, come lui. Forse giocando un po’ ironicamente mi stimolava ad avere un aspetto un po’ meno serioso da genitore.
Trani, 2004
Carlo sosteneva che: “L’AT epistologicamente è psicoanalitica, filosoficamente è umanistica e metodologicamente è varia e confusa” (2004). Ricordava che “l’ambizione di Berne era quella di fare dell’analisi transazionale un sistema di psichiatria sociale” sottolineando il fatto che “al giorno d’oggi uno sguardo sul macro-sociale è, per i professionisti della salute mentale, altrettanto importante che l’osservazione del micro-sociale, ossia dei sistemi familiari”.
Questa affermazione di Carlo è coerente con quanto scrive Berne nel libro” La struttura e le dinamiche delle organizzazioni e dei gruppi” (2018), oggi fruibile in italiano grazie alla splendida traduzione fatta da Michele Novellino, in cui nella descrizione degli aspetti che caratterizzano i gruppi tiene in considerazione costantemente la dimensione macro-sociale.
Nella sua relazione alla giornata di studio IAT nel 2004 Carlo sosteneva:
“Sempre più oggi è presente, forte e determinante l’attività ingiuntiva e controingiuntiva di quello che ho chiamato il quarto strato della struttura genitoriale, ossia il G3, o Genitore Sociale (D. Allamandri, 2012). Questo fatto deve spingerci, come terapeuti etici e moralmente responsabili, a studiare, approfondire e, al massimo delle nostre possibilità e capacità, intervenire sul macro-sociale.”
Col sistema educativo di oggi, non è più la famiglia la sola causa del protocollo da cui originano i copioni tragici e banali su cui professionalmente interveniamo, ma è la società stessa, con le sue aspettative, la sua spesso falsa moralità (penso al moralismo autocompiacente ed autocompiaciuto della political correctness), i suoi riti e i suoi miti, a chiedere o di adeguarsi alle aspettative di successo, bellezza e felicità predeterminate e soprattutto preconfezionate, in una banalissima ottusa pseudoestetica controcopionale, o a fomentare drammi esistenziali, copioni tragici, su scala mondiale come le morti del sabato sera, l’affamare popoli interi, il discriminare sempre più il diverso, dove per diverso, si intende anche chi non può o semplicemente non vuole sottomettersi a modelli di felicità mercantile. Il paria, il vero diverso, l’emarginato c’è oggi anche nella nostra società opulenta occidentale: è chi non spende, chi non compra, chi usa (o meglio vorrebbe usare) i mezzi e i media per crescere in cultura, saggezza e amore, invece che in edonismo e in conformismo (Tudor, 2008).
Aspetti sociali e psicoterapia
Per Carlo le dimensioni culturale e sociale non hanno caratteristiche accessorie nel funzionamento dell’apparato psichico, ma ne determinano la struttura e sono strutturanti anche rispetto alla genesi della sofferenza individuale. L’affermazione che non è la famiglia la sola causa del protocollo da cui originano i copioni ci invita ad approfondire in che modo l’aspetto sociale entra nella stanza della terapia (Campos, 2012 ;Jacobs, 1991; James Hillman, 2005; Massey, 2007; Nathan, 1996; Tudor, 2011).
Data l’importanza sia dei fattori del cliente che dei fattori extraterapeutici, nel riconoscere un interesse per il contesto sociale della terapia, Tudor propone una quarta modalità di azione terapeutica, nella formulazione fatta dalla Stark delle tre forme di psicologia: la psicologia a una persona; a una persona e mezza e a due persone. Tudor propone una psicologia di più di due persone, in cui nel processo terapeutico viene riconosciuto il significato e l’impatto di questi fattori extraterapeutici e del contesto sociale del cliente, del terapeuta e della terapia, della relazione empatica del terapeuta e del cliente con questi fattori. (Tudor, 2011)
A questo punto in AT dovremmo tentare di portare avanti le iniziali intuizioni di Berne rispetto ad un modello di psichiatria sociale che esca dal riduzionismo successivo della psicologia individuale e recupera una funzione culturale e politica della psicologia piuttosto che non una funzione normalizzatrice e adattata alle esigenze delle istituzioni.
Inconscio geopolitico
Voglio allora ricordare quanto afferma la Sironi (2010; 2018) che ci invita a prendere in considerazione nel nostro lavoro terapeutico, un ulteriore inconscio di natura diversa rispetto all’inconscio freudiano: l’inconscio geopolitico. Per questa autrice il fattore geopolitico (migrazioni, violenza collettiva, coscienza postcoloniale, postmodernità) influisce sulle nostre soggettività e si chiede come possiamo trattare, nelle soggettività postmoderne, le inevitabili lesioni narcisistiche o traumatiche causate da violenti riorganizzazioni geopolitiche o dalla ferocia del capitalismo finanziario e del bio-potere che si è esteso all’intero pianeta. (2018)
Secondo la Sironi le identità postmoderne sono caratterizzate da individui “normati” (o normopati: ammalati dalla norma) attraverso la sottomissione volontaria ai desideri di potere, inconsapevoli di essere manipolati” (ibidem). L’esistenza degli esseri umani postmoderni è terribilmente accelerata, come se si unisse alla temporalità dei computer. Ciò causa varie patologie, tra cui stress, burnout, depressione esistenziale e disturbi del comportamento alimentare. Tutto ciò produce sempre più spesso un abbandono dell’interiorità” (ibidem).
La costruzione delle identità postmoderne non può essere ridotta all’azione dei soli determinanti intrapsichici. Considerando come l’inconscio geopolitico attraversa i nostri pazienti /soggetti, la soggettività apre prospettive molto arricchenti per noi. Nella costruzione dell’identità degli individui postmoderni, il collettivo, la dimensione geopolitica ha lo stesso peso di altre determinanti che siamo abituati a conoscere meglio, cioè, quelli intrapsichici e relazionali.
Il benessere individuale allora non può essere dissociato da quello collettivo e il benessere sociale di questa o quella comunità non dipende solo da scelte economiche e finanziarie ma riguarda concetti come appartenenza, cooperazione, cultura condivisa.
Vivere l’insufficienza
Continua Carlo nella sua esposizione:
“Consideriamo alcuni cambiamenti nella cultura che sono significativi rispetto alla sofferenza psicologica. Il primo cambiamento si è registrato verso la fine degli anni 60, quando la parola d’ordine dell’intero continente giovanile era ”emancipazione” all’insegna del ”tutto è possibile” per cui la famiglia è una camera a gas, la scuola una caserma, il lavoro è il suo rovescio, il consumismo un’alienazione, la legge uno strumento di sopraffazione di cui ci si deve liberare. ”Vietato vietare”. Una libertà di costumi fino allora sconosciuta si coniuga a un progresso delle condizioni materiali e nuove prospettive di vita diventano una realtà tangibile nel corso del decennio. Se la follia, nel comune sentire dei primi anni 70, appare come il simbolo dell’oppressione sociale e non più come una malattia mentale, questo è appunto dovuto al fatto che tutto è possibile: Il pazzo, si dice, non è malato, è solo diverso, e soffre proprio per la mancata accettazione della sua diversità. Su questa cultura preparata dal 68, ma che il 68 aveva pensato in termini sociali, si impianta, per uno strano gioco di confluenza degli opposti, la stessa logica di importazione americana, giocata però a livello individuale, dove ancora una volta tutto è possibile, ma in termini di iniziativa, di performance, di efficienza, di successo al di là di ogni limite, per cui oggi …… le frontiere della persona e quelle tra le persone determinano un tale stato d’allarme da non sapere più chi è chi.
Il vissuto di insufficienza è oggi la causa prima della depressione. Esso attiva, a mio avviso non solo la dipendenza farmacologica… ma anche l’approccio che il paziente e il terapeuta, con lui colludente, possono avere all’analisi transazionale. Qui concetti di vincitore di Okness costante ed immutabile, assomigliano a quelle promesse di onnipotenza che polarizzano la ricerca della droga e del farmaco facile. Il farmacodipendente, il tossicodipendente sono infatti i due versanti di quel tipo umano che infrange la barriera tra il ”tutto è possibile” e il “tutto è permesso”. Essi radicalizzano la figura dell’individuo sovrano e pagano il conto con la schiavitù della dipendenza, che è il prezzo della libertà illimitata che l’individuo si assegna. In questo senso, il rimedio psicoterapeutico può essere peggiore del male, perché, togliendo dignità alla sconfitta, all’insuccesso, al limite, vietando che lo si ascolti e lo si accetti, induce il soggetto a cercare di superare se stesso, senza essere mai se stesso, ma proponendosi come una risposta agli altri, alle esigenze efficientistiche e afinalistiche della nostra società, con conseguente inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita emozionale, omogeneizzazione alle norme di socializzazione richieste dalla società a cui fanno più comodo robot de-emozionalizzati e automi impersonali, che soggetti capaci di essere se stessi e di riflettere sulle contraddizioni, sulle ferite della vita, e sulla fatica di vivere.
Nel 1887, un anno prima di scendere nel buio della déraison, Nietzsche annunciava profeticamente l’avvento dell’individuo sovrano ”Riscattato dall’eticità dei costumi”. Oggi a più di 100 anni dalla morte di Nietzsche, possiamo dire che l’emancipazione ci ha forse affrancato dai drammi del senso di colpa e dallo spirito d’obbedienza, ma ci ha innegabilmente condannato al parossismo dell’efficienza, dell’iniziativa e dell’azione. E così la fatica depressiva ha preso il sopravvento sull’angoscia nevrotica.
Uno sguardo al sociale
Raccomando questa riflessione di Ehrenberg (2010) agli analisti transazionali che, impegnati a cercare l’origine della depressione nella chiusa interiorità dei nostri Stati dell’io e del nostro protocollo nelle relazioni simbiotiche con la madre e con il padre, non sollevano mai lo sguardo per dare un’occhiata al sociale, la cui trasformazione potrebbe suggerire loro che la depressione non è più pensabile, come un tempo in termini di tristezza e sensi di colpa, bensì in termini di capacità/incapacità. La capacità di essere se stessi al di là delle richieste sociali di efficienza, iniziativa, rapidità di decisione e di azione, di cui non è dato scorgere il limite. Qui voglio sottolineare qualche responsabilità che noi analisti transazionali abbiamo nel sostenere una mentalità che è in fondo socialmente patologizzante. Mi riferisco alla criminalizzazione del senso di colpa invece che al lavoro per scoprirne e elaborarne non solo le fonti ma anche i suoi aspetti costitutivi per una nuova etica personale. Mi riferisco anche all’equazione piacevole uguale positivo e spiacevole uguale negativo….. credo che sia tempo di chiarire che spiacevole e doloroso può essere positivo e costruttivo, così come gradevole e gratificante può essere distruttivo. Il senso della persona come persona vincente, che realizza tutte le sue iniziative, è antropologicamente coerente con l’ideologia globale di conquista di popoli giovani tesi adolescentemente e giovanilmente all’espansione. Questa ideologia a noi europei, grazie al cielo, non ci appartiene più e, d’altro canto, non ci appartiene ancora l’ ideologia da età avanzata, post realizzazione sociale del sé che vede (a partire da influenze provenienti dall’oriente) nel superamento delle passioni il mezzo indispensabile per raggiungere la costante armonia, che è la loro visione della persona sana. Per noi sano vuol dire consapevolmente cosciente, responsabile, maturo, che vive nel qui e ora la pienezza delle sue qualità e l’accettazione dei suoi limiti.
Questa posizione ideologica, a mio avviso, è indispensabile per una psicoterapia efficace rispetto alla sintomatologia dei nostri pazienti di oggi, affetti dall’insonnia e dall’ansia parossistica, o dalla perdita più o meno estesa d’iniziativa, dall’inibizione dell’azione, dal senso di fallimento e distacco”.
Carlo in queste sue considerazioni sembra dettare un manifesto politico in cui ci invita ad avere una visione aperta e dinamica del sapere e ad utilizzare i nostri saperi e le nostre competenze al di là del ruolo di specialisti esperti ma con uno sguardo al mondo e per il mondo.
Fuori dalla stanza
Come sosteneva James Hillman (2005) in un suo famoso testo “Cent’anni di psicanalisi e il mondo va sempre peggio”, la psicoanalisi si è chiusa in se stessa nella relazione paziente-analista, perdendo di vista ciò che sta fuori il setting terapeutico, cioè il mondo. La psicoterapia sembra avere a che fare solamente con singoli individui, il cui disagio non viene visto come la sofferenza di un’anima di fronte ad un mondo in guerra, inquinato, rumoroso, esteticamente sgradevole, considerando i problemi dei pazienti solo come interiori.
Carlo ci invita a guardare alla sofferenza dell’individuo come un tutt’uno con quella del mondo e al di là del mito dell’infanzia del paziente mettendo fuori gli aspetti concreti della sua giornata, e delle credenze con le quali vive le sue relazioni nel mondo.
Hillman (ibidem) invitava gli analisti ad aprire una finestra nella stanza dell’analisi. Una finestra che simboleggia la possibilità di guardare al di fuori del setting terapeutico, verso una realtà fatta di luoghi di sofferenza, di luoghi osceni, di desertificazione della natura, della riduzione degli esseri viventi a cose. Per Hillman è quindi necessario ricominciare da un’educazione estetica, ridefinendo il sé come interiorizzazione della comunità.
C’è bisogno di teorie che muovano la mente, e non di teorie che sistemino la mente per “norma”- lizzarla.
Modelli culturali
Mi chiedo in che modo possiamo conciliare queste analisi con l’attuale ricerca di manualizzazione della metodologia AT (Widdowson, 2018) che appaiono connesse al bisogno di essere riconosciuti come validi meccanici della mente da un mondo accademico, distante dalla realtà sociale e spesso dalla realtà della cura della sofferenza e da un mondo finanziario interessato agli aspetti economici della salute mentale più che all’evoluzione della specie umana.
Ma mi chiedo anche in che modo possiamo affrontare con i nostri pazienti la crescente induzione alla intolleranza verso il diverso, la crescente cultura etnocentrica e xenofoba, che sembra invadere in questi ultimi anni l’Europa e che comporta una chiusura verso l’altro da noi in una realtà sociale che invece è già multietnica e multiculturale da diverse generazioni ormai.
Questo dilagante modello culturale impregnato di slogan di appartenenze razziali e di assenza di visione prospettica dell’umanità in nome dell’oggi, sembra aver superato in parte la dimensione depressiva della collettività, che descrive Carlo, per dirigersi verso una posizione paranoica legata al potere e al controllo.
L’appartenenza, che rappresenta un bisogno fondamentale dell’uomo e che nell’uomo libero diventa desiderio di condivisione, curiosità per la conoscenza, solidarietà, fratellanza, diventerebbe una necessità vincolante direttamente connessa ad una indissolubile dipendenza dal potere, dipendenza negata attraverso la proiezione sull’altro “diverso”, di quanto non risolto in noi.
Rispetto all’essere analisti transazionali in questo modello sociale descritto Carlo sosteneva nel 2004:
“È nostro preciso dovere etico andare al di la dell’analisi di comportamenti superficiali e porci delle domande. Come possiamo parlare di analisi transazionale quando nel lavoro clinico al 90% si prescinde dall’analisi puntuale delle transazioni e dei giochi? Come possiamo parlare di analisi transazionale se non c’è una metodologia clinica per affrontare le psicodinamiche sottostanti i giochi psicologici? Abbiamo, forse, un consenso, o abbiamo perlomeno tentato di discutere su quale fosse il setting clinico necessario ed imprescindibile per effettuare la serie di specifiche operazioni proprie dell’analisi transazionale? Come è poi potuto succedere che l’analisi transazionale sia all’origine dei più recenti sviluppi del cognitivismo e della stessa psicoanalisi, ma non venga mai citata nelle bibliografie?”.
Nuove risposte
Credo che ad alcune domande che poneva Carlo, oggi, possiamo dare qualche risposta in più (Erskine, 2018; Cornell, 2018; Tudor, 2014; Grégoire, 2012; Stuthridge, 2012, 2013, 2015; Novak, 2015; Hargaden H., 2013; Hargaden H. &., 2002). Voglio sottolineare la questione metodologica che poneva Carlo rispetto a quale setting clinico consente di effettuare le operazioni proprie dell’analisi transazionale. Questa questione rinvia al fatto che, secondo Carlo, il setting non era indifferente rispetto alla teoria e alla teoria della tecnica e che questa, in alcuni aspetti fondamentali, fosse il risultato di una riflessione conseguente a ciò che poteva essere osservato in uno specifico setting. Per me questa considerazione comporta il fatto che, se ci riferiamo ad una terapia di gruppo, ciò che osserveremo e ciò che teorizzeremo sarà conseguente al setting di gruppo che metteremo in atto.
Come sosteneva Berne “Bion è uno dei pochi (tra gli altri pochi mette Trigant Burrow) che abbia cercato di osservare cosa accada in un gruppo da un punto di vista naturalistico, non cercando di provare o smentire qualcosa, bensì semplicemente chiedendosi: “Cosa sta accadendo qui?”. In qualche modo il lavoro di Bion risulta più interessante dei comuni e usuali studi statistici. Egli ha osservato, con molto acume, cosa accadeva nei suoi particolari gruppi. Gli stati di gruppo da lui descritti appaiono come funzioni accessorie, ma è possibile che siano obbligatorie. Il quesito è se tutti i gruppi devono necessariamente trovarsi in uno dei suddetti stati oppure attraversarli nel corso della propria evoluzione, o anche risultare non necessari in alcuni casi.” (Berne, 2018, p. 140-141).
Queste considerazioni mi riportano a quanto sostengono Nathan e Devereaux a proposito del setting. Per questi due etnopsichiatri le caratteristiche strutturali del setting sono decisive per lo sviluppo e gli esiti di un processo terapeutico, “ il quadro tecnico è quel dispositivo entro il quale tutto ciò che accade viene concepito dal terapeuta come naturale……. le interazioni che si producono all’interno di un dispositivo tecnico vengono a inscriversi in un’operazione di costruzione del senso indotta dal dispositivo stesso”. (Nathan, 1996, p. 45)
Questa domanda di Carlo a mio avviso rimane tuttora aperta in AT: in quale setting di gruppo è possibile utilizzare le operazioni terapeutiche che caratterizzano la metodologia AT e quindi crescere nella teoria? (Sisalli, 2008, 2016)
Carlo riteneva che: “ci sono due grandi categorie di errori che tutti noi abbiamo fatto; errori di metodo e di merito, o come si preferisce dire in italo- american-psicologese, di processo e di contenuto. Alcune incongruenze interne ai concetti berniniani e alcuni vuoti nella metodologia e nell’epistemologia sono stati affrontati allontanandosi dall’analisi transazionale e importati soprattutto dalla Gestalt e dagli approcci eclettici, invece che lavorare all’interno della costruzione berniniana e delle sue origini nella psicoanalisi e nella cibernetica” (Moiso, 2004)
In modo più chiaro Michele Novellino (2004) propone e risponde alla domanda rispetto ad un setting individuale che possa contenere i costrutti teorici dell’AT.
Non casualmente Carlo poneva queste domande in una giornata in cui si festeggiava il premio Berne assegnato a Michele Novellino ed era da poco uscito il libro Psicoanalisi Transazionale.
Negli ultimi anni sembra essersi aperto un dibattito in AT rispetto alla terapia di gruppo in cui sempre più viene preso in considerazione il gruppo nel lavoro terapeutico (Cornell, 2013; Dalal, 2016; Deaconu, 2013; Erskine, 2013; Jacobs, 1991; Lee, 2014; Ranci, 2002; Sisalli, 2016; Tudor, 2013) . Questo fatto ci può aiutare a rispondere ad una domanda fondamentale che fa Berne (2018) : Tutte le teorie di dinamica di gruppo tentano di rispondere alla domanda fondamentale “perché mai qualcuno fa ciò che qualcun altro gli dice di fare? In questa domanda e nella sua risposta possiamo inscrivere la visione della psichiatria sociale che caratterizza l’analisi transazionale.
Conclusione
Voglio finire con le conclusioni di Carlo Moiso:
“ Dobbiamo diventare degli intellettuali, dobbiamo essere i fautori di una integrazione non di virtuose tecniche di psicoterapia, o di affascinanti teorie sulle diverse metafore per definire la psiche, ma farci noi stessi antropologi, filosofi, biologi. Analogamente a quanto afferma Morin, anche noi nello specifico del lavoro con il paziente dobbiamo essere in grado di cogliere la complessità delle cose senza però illuderci di avere certezze definitive.
Però, perché l’assenza di certezze non ci danneggi, è indispensabile che sia accompagnata da una forte visione ideologica.
Da analista transazionale europeo ritengo che la nostra ideologia possa essere da una parte quella di avere come obiettivo clinico, sempre e comunque, quello di aiutare i nostri pazienti a recuperare appieno la capacità di amare e operare e dall’altra parte quella di essere guidati da una fede: la mia, ripeto, come europeo, non può che essere quella della libertà, dell’eguaglianza e della fratellanza.
Anche io mi impegno a farle trionfare, anche se non sono per nulla certo che alla fine ciò avvenga davvero. Ma al pessimismo della ragione possiamo sempre opporre l’ottimismo della volontà”.
Grazie” (Moiso, 2004)